Diario di un sopravvissuto #2


La Corsa.

Ho il fiatone, il cuore che batte a mille. Non riesco a procedere, ma devo. Voglio allontanarmi il più possibile. Le gambe non mi reggono più. Maledetto acido lattico e accidenti al mio sedentario lavoro. Ci sono quasi, fuori da questo diabolico incubo. Lo voglio credere e lo spero. Lo desidero. Ok, sono abbastanza lontana. Da chi o da cosa? Non riesco a continuare a correre. Mi fermo, sono arrivata al confine del paese, mi siedo sotto il cartello che ne identifica il nome, mi appoggio con la schiena al palo che sorregge il bianco cartellone con scritto 'welcome to Bread city'. Città del pane, che buffo nome. Chiamato così dai vecchi padri fondatori del paese che vollero omaggiare in questo modo un luogo dai risvolti quasi magici e divini, un incantevole posto. Circondato da campi di grano dalle dimensioni così vaste da non riuscire a vederne la fine. Ma non oggi. Quello stesso grano che in tempo di guerra riuscì a garantire il cibo necessario a non soccombere ad una carestia che ogni maledetto conflitto si porta con se, contribuendo in seguito a costruire e mantenere questo piccolo paese che altrimenti sarebbe morto. Blocco la mia mente come se il pensare producesse un rumore che non mi consente di ascoltare ciò che voglio. Non so bene cosa voglio sentire. Non capisco nemmeno cosa dovrei e vorrei vedere. Sono avvolta da una finissima ma fitta nebbiolina. Non riesco a vedere molto lontano. Anche i campi di grano sono coperti da un bianco lenzuolo di una foschia che non è tipica di questo posto. Frastornata da una sensazione di vuoto che mi lascia interdetta ed inerme, mi accorgo di essere rimasta per troppo tempo seduta. Sola.
E' quasi completamente buio e ho paura. Mi rialzo, le gambe si sono riprese e non mi fanno più male. Respiro bene, non sono più in debito d'ossigeno. Provo a razionalizzare quello che mi è successo oggi, completando le ultime righe di un quaderno che mi sta tenendo in vita, illuminato da una debole luce di una torcia recuperata quasi per gioco, un diabolico gioco che sembra non voler finire... Questa mattina, come in una ripetitiva e monotona routine, ma che amo, sono una fottuta abitudinaria, mi preparo per andare a lavorare. Ancora assonnata dalla lunga notte passata a leggere racconti di una rivista che amo, adoro le storie dell'orrore, mi dirigo verso il mio luogo di lavoro. Non faccio caso a niente e come un automa entro nel camerino, indosso il camice verde chiaro, lo abbottono e lego i deboli e sottili laccetti che con un piccolo fiocchetto mi rendono un pochino ridicola. Non me ne curo. Ormai ci sono abituata. Passo tra le scansie che comincio a notare strane, vuote e stranamente silenziose, ma continuo a non dare peso a sensazioni che so dovute al sonno che ho accumulato e ancora non ho soddisfatto. Arrivo vicino alla cassa, posiziono la sedia girevole, scomoda e troppo alta per me, e mi avvicino alla tastiera con i piccoli pulsanti. Apro il cassettino con i soldi e preparo gli spiccioli per i resti, ne annoto il totale su un quaderno che stasera avrei dovuto aggiornare e consegnare al capo negozio. Ora devo svegliarmi, i clienti stanno arrivando, come sempre, come tutte le mattine a quest'ora. Alzo la testa, cercando di lottare contro quell'automatismo che mi faceva procedere come un robot, e cerco con lo sguardo i miei colleghi delle casse vicine. Io sono la numero due. Cerco la numero uno e la numero tre. Non ci sono. E adesso che ci penso non ho visto nemmeno il capo negozio, di solito mi accoglie con un grande sorriso, credo di piacergli. Non c'è. Non sento nemmeno quella solita aria che dolcemente mi colpisce, ogni volta che un cliente entra da quelle porte ad apertura automatica. Sono chiuse. Dalle vetrate del negozio non vedo molto lontano. C'è nebbia, foschia. Di solito non c'è, solo raramente. E questa sarà una di quelle volte. Quindi non riesco a vedere se in strada passa qualcuno, non sento nemmeno le macchine che già a quest'ora sono tante e dannatamente rumorose. Rimango interdetta, stranita. Credo di aver disegnato sulla faccia un'espressione un po' inebetita, con un enorme punto interrogativo. Ad un tratto mi assale un'ansia che non conosco, un brivido lungo la schiena che contribuisce a svegliarmi completamente. Sono allarmata. Non riesco ad alzarmi dal mio scomodo sgabello, quasi come se fosse un luogo sicuro che non voglio abbandonare, come se non sapessi cosa fare e dove andare. Arretro spingendomi con le mani, e facendo leva sui gomiti appoggiati alla cassa, decido di alzarmi, per vedere meglio ciò che non c'è più, come se da in piedi fossi molto più alta. Non è così! Mi guardo attorno e mi accorgo del vuoto che mi avvolge. Non c'è nessuno. Nessun cliente, nemmeno un collega, non c'è neppure il magazziniere che riempie tutte le mattine le scansie svuotate il giorno prima dai nostri clienti. I ripiani che avrebbe dovuto risistemare sono infatti ancora mezzi vuoti. Comincio a vagare per il negozio, tra una fila di barattoli di pelati e una di detersivi, cerco traccia di vita. Non credo a quello che ormai è già evidente, non riesco a capacitarmi del fatto che qua dentro non c'è nessuno. Non credo a quello che purtroppo 'non vedo'. Decido di andare sul retro, in magazzino. Non ci vado spesso, troppi uomini tra magazzinieri e camionisti che ci consegnano la merce. Le loro occhiate e le loro battute mi imbarazzano, quindi evito. Oggi no, sono curiosa e devo capire, se non voglio impazzire, devo comprendere. Mi faccio spazio con le mani spingendo di lato quell'odiosa specie di tenda di plastica trasparente che separa il negozio dal magazzino, ed entro. Le alte e grigie scaffalature metalliche mi sovrastano come gli alberi di un bosco stregato, l'ansia aumenta. La luce dei neon appesi nel soffitto alto di questo ormai diabolico luogo è accesa e crea un gioco d'ombre che mi catapulta in uno dei raccapriccianti racconti che leggo su quella dannata rivista. La vendiamo anche noi, nel nostro market, la leggono persone di ogni età. E' incredibile come il mistero e l'occulto affascini lettori di ogni tipo, dai capelli bianchi ad acneici ragazzini, uomini e donne. Non facciamo in tempo a riempire il ripiano che 'Mistery' finisce in un attimo. Io non ne rimango mai senza, sono la prima a comprarne una copia, appena arriva. Vantaggi di lavorare in questo negozio. Il grande portone che separa il magazzino dalla strada è chiuso, non dovrebbe. Lo apro, è pesante, molto pesante. Lo spingo con forza quel tanto che basta per riuscire a passare. Fuori non ci sono i soliti camion che aspettano di scaricare. Il piazzale è dannatamente vuoto, avvolto anche questo da quella strana e fitta foschia. Non vedo oltre una decina di metri. Rientro, terrorizzata. Richiudo a fatica il troppo pesante portone, come a volermi proteggere da un qualcosa che non conosco, come a volermi isolare dall'esterno. Mi precipito sul telefono del piccolo ufficietto del magazzino. Compongo il numero di mia madre, la mia confidente e cara amica, il mio punto di riferimento. Non ci riesco, mi tremano le dita, ci riprovo e ce la faccio. Attendo che cominci a suonare. Non risponde nessuno. Provo con un altro numero, chiamo la polizia, tre numeri sulla piccola tastiera che questa volta riesco a comporre in un attimo. Nulla. Ci provo ancora. Niente. E ora?! Torno in negozio. Ok, devo calmarmi. E in un gesto che non mi appartiene decido di aprire una bottiglia di vodka alla menta, la prima che mi è venuta alle mani, e tremando la apro. Mi ci attacco come se fossi un'esperta bevitrice, ma non è così, e alzando la testa verso il soffitto ne mando giù un lunghissimo sorso. Mi viene quasi da vomitare. La testa comincia a girarmi. Mi siedo e tento di rilassarmi con un secondo sorso, più corto. I nervi si calmano, non tremo più. Appoggio la bottiglia per terra. Penso, rifletto, provo a ripercorrere l'intera giornata a ritroso, non ricordo gran che. In un attimo mi ritrovo nel mio piccolo spogliatoio davanti al lavandino, mi tolgo la buffa divisa e mi lavo la faccia. Mi guardo allo specchio, capelli biondi, raccolti da una molletta scura, occhiaie non tanto profonde ma presenti per il sonno accumulato, una camicetta bianca a maniche corte. Allontano con un calcio nel vuoto le pantofole ortopediche che indosso per comodità quando lavoro e mi infilo le mie pratiche ed economiche nike bianche, parzialmente coperte dai jeans a vita bassa che indosso ogni giorno. Appendo il mio camice alla gruccia che incastro dentro al mio armadietto. Lo chiudo quasi sbattendolo infastidita da una realtà che mi ha stravolto nella mia amatissima quotidianità, stroncata da un vuoto forzato che mi sta facendo impazzire. Sopra, disegnato con un pennarello di colore nero, in corsivo, c'è scritto il mio nome, Jane O'Connor. Corro verso le enormi vetrate che si affacciano sul paese, sulla strada. Mi ci attacco come un bambino davanti ad un negozio di giocattoli, ma con una sensazione diversa, infatti sono atterrita, sconvolta e impaurita. Guardo fuori alla ricerca di vita, di un segnale di presenza, di qualsiasi cosa che smetta di farmi sentire così terribilmente sola. Quella maledetta foschia mi limita lo sguardo, come se volesse costringermi li, dove sono ora, come se volesse impedirmi di andare oltre. La paura ora è intrecciata ad una forma di involontaria pazzia che mi fa spalancare gli occhi. Li sento come se mi stessero per uscire dalle orbite, li muovo a destra e sinistra come il pendolo di un orologio che segna l'inesorabile passare del tempo. Mi sento in gabbia, in una prigione non voluta. Mi ha scelto lei. Intrappolandomi nelle mie paure e da ciò che non conosco, da ciò che mi abbraccia in un'ormai presa mortale. Entro nell'ufficio del capo, cerco la televisione più per trovare quella compagnia di cui ho un disperato bisogno che per sapere cosa diavolo sta accadendo. La accendo ma non trasmette niente. Lo schermo appoggiato sul mobile basso di fronte alla scrivania, tra una pila di raccoglitori ad anelle e qualche carpetta porta documenti appoggiata disordinatamente, rimane nero e appare la scritta, 'segnale assente'. Sono seduta sulla poltrona del potere di un piccolo reame che ormai non c'è più e sulla scrivania del capo negozio vedo la foto dei suoi due piccoli figli. La moglie non c'è. E' divorziato. Appoggio la testa avvolta dalle mie esili braccia, sulla grande tavola in cristallo sorretta da due possenti gambe metalliche color acciaio, una scrivania degna di un manager d'assalto, non certo di un capo negozio di un medio piccolo minimarket di un altrettanto non grande paese. Ma lui era così, un po' megalomane. Un bravo capo però. Che ora non c'è più. Attraverso il vetro del tavolo vedo la sua cassettiera e decido di aprirla. Ci sono quaderni e penne nel primo cassetto, materiale di cancelleria vario nel secondo, e nel terzo, più grande e più profondo, un cofanetto. Lo apro. Una pistola. Ne ho paura, ma decido di prenderla. Non so usarla ma mi fa sentire sicura. La appoggio sulla scrivania insieme ad un piccolo quaderno ancora immacolato, prendo una penna e decido di scrivere ciò che mi sta succedendo. Come a voler immortalare in un 'diario di una sopravvissuta' le memorie di una persona che ancora c'è e che sta lottando per non impazzire. Mi aiuterà a fare il punto della situazione, a distrarmi. A non sentirmi più sola. Quest'ufficio mi fa sentire protetta, un po' piccolo per una scrivania così grande, ma confortevole. Ci rimango per parecchio tempo, intenta a scrivere le mie emozioni su un quaderno che scoprirò essere il mio ultimo e unico compagno di viaggio. Comincio ad essere stanca, non ho ancora mangiato. Mi dirigo verso la scansia delle barrette dietetiche, non prima di aver infilato nella tasca posteriore dei jeans il piccolo quaderno e la penna. La pistola alla cinta, incastrata tra la pancia e la stoffa dei pantaloni abbelliti da una pratica e robusta cintura di pelle nera, proprio come uno di quei personaggi che adoro e di cui leggo le incredibili storie raccontate su quella terrificante rubrica dell'horror. Nonostante quella ormai spaventosa nebbiolina persistente che ancora non aveva voluto diradarsi, mi accorgo che è sopraggiunta la sera. Guardo l'orologio. Sono le sei e diciassette. Non resisto più. Non posso rimanere qua dentro ancora per molto, rischio di impazzire. Riempio uno zainetto preso nel reparto cartoleria dedicato all'unica scuola del paese, e ci infilo del cibo, le solite barrette dietetiche, qualche bottiglia d'acqua, la vodka no, quella non la voglio, non amo bere e mi fa stare male. Nella taschina davanti ci metto una piccola torcia, non si sa mai. Devo uscire, questa maledetta prigione sta diventando troppo stretta e il buio che da fuori sembra voler invadere il negozio mi crea una sensazione di soffocamento, le luci dei neon del minimarket giocano a disegnare ombre diaboliche che non voglio più guardare. Voglio scappare. Sono quasi davanti alla fotocellula delle porte automatiche, ancora un passo e si apriranno. Sono sicura. Avanzo. Si aprono. Rimango per un attimo immobile come impietrita da una paura che vuole e tenta di paralizzarmi in una statua di marmo. Come uno di quei gargoyle che si trovano sul teatro della mia città e che un pochino mi hanno sempre fatto un po' di soggezione. Cerco un obiettivo da raggiungere, una breve destinazione che mi aiuti ad uscire da quel luogo, non si vede molto e tra la nebbia e il quasi buio non vedo altro che il muro dell'edificio di fronte. Corro, veloce, come farebbe una lepre che scappa da un cacciatore e dai suoi famelici cani, e in men che non si dica mi ritrovo completamente appiattita sulla parete in mattoni rossi del palazzo che un attimo prima mi sembrava lontanissimo. Ci striscio lungo tutto il perimetro, e arrivo proprio di fronte a quel maledetto teatro. Ironia della sorte. Quelle diaboliche statue poste sulla sommità delle scale di pietra mi guardano. I due dannati gargoyles mi stanno fissando. I lampioni delle strade ancora stranamente accesi contribuiscono a creare quell'atmosfera che solo in certi racconti dell'orrore si può palpare e vivere, che adoro leggere, sicura e protetta, avvolta dalle calde e comode coperte nel grande ma confortevole letto matrimoniale di casa mia. Ora però vorrei essere altrove. Non voglio nemmeno tornare a casa, voglio solo scappare. Lontano. Continuo a non vedere nessuno e a non sentire niente. Il nulla. Solo le mie paure. Il mio senso dell'orientamento è andato a farsi fottere insieme a tutte le convinzioni razionali che ho e che mi avevano insegnato fin da bambina. Nel mio vagare strisciante tra una parete e l'altra mi ritrovo improvvisamente davanti ad un parco. Non voglio tornare indietro. E dove poi? In un coraggio che non ho mai avuto, forse spinta da una adrenalina che ormai mi droga ad ogni passo che faccio, decido di attraversarlo. Come in uno di quei cartoni animati che da bambina guardavo, passo tra un albero e l'altro, appiattendomi per non essere vista da qualcuno o qualcosa che ancora non ho capito cosa CAZZO possa essere. Se le scaffalature del magazzino del minimarket mi sembravano rami di un bosco stregato, ora sono completamente ed inquietantemente rapita da un paesaggio degno di un film di 'Nightmare'. Ombre, luci soffuse, nebbia che sembra volerti afferrare e rapirti, panchine che assomigliano ad improbabili mostri pronti a saltarti addosso, ad ogni istante. La mia fantasia, quella più diabolica e perversa prende il sopravvento, portandomi a vedere cose che so non esistere. O almeno credo! Di male in peggio. Mi manca il mio minimarket. Rimango dritta immobile accanto ad un grosso albero che mi da la parvenza di un rifugio sicuro, mi copre abbastanza. Ma da chi? Da cosa? Non capisco cosa fare e dove vorrei andare. Devo uscire anche da li. Devo continuare a scappare. Un fuga che mi sembra diventare perenne da un posto ad un altro, senza una meta, come una corsa infinita verso un luogo che non c'è più. Sto per piangere, affranta e distrutta da uno stress che non riesco più a reggere. Sento la prima lacrima che mi tradisce, la fermo con il dorso della mano destra e con la sinistra cerco la pistola che avevo incastrato nella cintura. Mi da una parvenza di momentanea ed illusoria sicurezza. Ad un tratto un rumore. Finalmente un suono, uno stramaledetto qualcosa di nuovo. Un fruscio, breve seguito da uno scoccare deciso, secco. Lo sento una volta sola. Ma l'ho ascoltato bene. Definito, saprei riprodurlo, scch...slok! Come un soffio di vento, ma breve e veloce accompagnato da una sorta di un qualcosa che viene rotto, spezzato velocemente e bruscamente, quasi con cattiveria, come a volerlo stroncare per sempre... Oltre allo strano suono non vedo niente, non si riesce a vedere gran che. Ho preso coraggio e procedo in una direzione che penso giusta per uscire da quel parco, trasformatasi ormai in una giostra degli orrori, e finalmente arrivo al cancello che ne delimita la fine. E' socchiuso, mezzo aperto. Per terra segni che indicano che qualcuno o qualcosa è caduto. Ha strisciato. Sul cancello all'altezza delle ginocchia ci sono delle macchie rosse, dense, non ancora secche. Credo sia sangue. Mio Dio è sangue! Mi volto, voglio accertarmi di essere sola, dopo quel rumore e ciò che ho appena visto non so più cosa aspettarmi. Sono sola, ma maledettamente nel panico, e mi sento come se fossi osservata da qualcosa che non riesco a vedere e che non vuole farsi notare. Sono nascosta. Per ora...

Eccomi in strada, non ci sono palazzi, dietro di me il parco e davanti il vuoto. Mi incammino, credo sia la strada che porta fuori dal paese, comincio a percorrerla avvolta da una irrazionale sensazione di felicità, come se avessi finalmente trovato una via d'uscita da un qualcosa che non voleva più mollarmi. Un'adrenalinica euforia degna di un pazzo furioso che agisce senza sapere cosa sta facendo. Risento quello strano rumore. Mi giro e guardando in mezzo alla fitta foschia lo sento ancora. Più vicino, più forte, più cattivo. Mi accorgo che ora la nebbia non è più immobile. Si muove, non lo aveva mai fatto. E' sempre rimasta fissa, ferma, come una struttura che si poteva quasi toccare. Ora non più. Sono nel bel mezzo del nulla, su una cazzo di strada che sembra non avere mai fine, avvolta da una nebbia che proprio ora comincia a dare segni di una vita diabolica. Ho paura. Continua a muoversi come se stesse ondeggiando in una fluttuante spirale circolare, sfumature di grigio e bianco che si sovrappongono all'infinito intercambiandosi tra loro. Come una danza satanica, un richiamo per qualcosa o qualcuno. Per ipnotizzarti. Indietreggio cercando di allontanarmi, spaventata, quando ad un tratto da quella maledetta nebbia vedo comparire una sorta di eterea ombra scura, più buia della notte, nera. Di un nero che non avevo mai visto, profondo. Troppo profondo. Non è ben delineata, e appena la vedo ecco ritornare quel malefico rumore, 'scch...slok'. Ora è fortissimo. Un frastuono pietrificante. Veloce. In un attimo, si piega su se stessa come un sussulto, come se volesse afferrarti. Rapirti, aspirarti. Come se volesse morderti e degnutirti in un diabolico NULLA, ingoiandoti in un infinito sconosciuto e mortale vuoto. In un'ultima ormai inattesa scarica di adrenalina mi giro di scatto e comincio a correre, più forte che posso, come non avevo mai fatto. Corro fino a che ho fiato in corpo alla ricerca di una salvezza insperata e da un qualcosa che non conosco, cercando di mettermi al sicuro in un luogo che non so dove trovare. Corro, corro, e continuo a correre...

(Continua...)



[Christian B.]

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